Il 25 novembre si celebra…cosa? di Katia Mammola

Per una imprescindibile rivoluzione silenziosa

Il 25 novembre si celebra nel mondo la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Si celebra: è già disturbante come un suono distorto. Ricorre, ancora una volta, beffardo, il giorno di unanime protesta, l’attimo fuggente di infinite manifestazioni, la cupa ridondanza delle iniziative, degli appelli, dei buoni propositi.

Da parte di chi? Gli strumenti dove sono? E quali, soprattutto gli obbiettivi?

L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito una data che rammenti ai Governi, alle organizzazioni di qualsivoglia genere (sic!) e tipo a ‘sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle più devastanti violazioni dei diritti umani’. 

Lo ha decretato tramite la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999: è interessante considerare come, nel corso di quasi 25 anni, un quarto di secolo, la violenza sulle donne sia non solo aumentata esponenzialmente ma che ad incrementarsi sia stata, soprattutto, la brutalità degli atti contro le donne. Superfluo riportare i numeri dei femminicidi: le statistiche sono ovunque. Inutili saranno migliaia di panchine rosse, gli striscioni, nessuna mai più, Giulia siamo tutte, le labbra strette, il grido muto… e l’arancione non sarà il colore di un’aurora splendente ma la desolazione di un tramonto che annuncia la notte di questa civiltà.

Il 25 novembre è anche il mio onomastico: santa Caterina d’Alessandria era una bella giovane nata intorno al 287 ed istruita, sin dall’infanzia, alle arti liberali. Rifiutatasi di rinunciare alla sua fede e di andare in moglie a Massenzio (o a Massimino Daia: la trascrizione è incerta) venne dall’imperatore stesso, così colpito dalla sua cultura e dalla sua audacia,….decapitata.

C’è un termine che ricorre nei fiumi di parole versati in questi ultimi giorni, una parola greve come un macigno: impegno.

“Downsizing” è il titolo di un allucinante film di Alexander Payne del 2017: ambientato in un futuro distopico, invita a riflettere sulle scelte del singolo e sulla necessità di non fuggire, di non nascondersi; sottolinea la sostanzialità di un corretto confronto catartico con la collettività dal quale possa emergere non la garanzia dell’Eldorado con l’eliminazione di ogni problema,  bensì l’individuazione degli strumenti necessari per contrastarli. E, certamente, la forza per operare, per attuare l’impegno. Salvare il genere umano condannato all’estinzione dalle rivendicazioni di un “Pianeta sfregiato” – cui il film allude –  attraverso una via di fuga per pochi che hanno intravisto la fine, oppure onorare il genere umano attraverso l’acquisita consapevolezza della sacralità di ogni essere umano -con cui il film si conclude- è una scelta, anch’essa di pochi.  Ma è la scelta rivoluzionaria, la scelta della speranza, della solidarietà, del to spend il tempo che resta (comunque ipotetico) con la mente e con il cuore.

Una rivoluzione, dunque. Silente, nascosta, sussurrata, consapevole: sommessa quanto decisiva, invasiva come un cancro, spietata più di un (troppo spesso presunto) cambiamento urlato, esplicito, irrispettoso.

Modifichiamo nel silenzio rispettoso il “linguaggio” che racconta la violenza: dai media alla celebrazione dei processi, diventa, troppo spesso, esso stesso linguaggio di violenza abusando della sacralità della persona, di ogni persona. Rifuggiamo dalla morbosità di ogni indugiata, reiterata descrizione di dettagli che (parafrasando Thomas Mann) umiliano l’amore di ogni storia degna di essere narrata.

Sconfessiamo l’atrocità dell’impossibile ‘sintesi di amore e annientamento’, l’atroce cemento armato che struttura l’abuso domestico; disinneschiamo l’ordigno di ogni strategia di assoggettamento (nella quale il linguaggio gioca un ruolo di primo piano) spiegando alle donne ed agli uomini, comunque e dovunque, che è “manifestazione suprema del potere dividere il soggetto da ciò che può”. Dice bene Raffaella Scarpa nel suo saggio  “Lo stile dell’abuso”: le condotte violente alienano la donna da ciò che può essere e che può fare, ne demoliscono l’identità e la possibilità di azione; la menzogna sistematica inficia la capacità di giudizio, l’assedio dell’abusante isola e sfinisce la vittima sino alla resa definitiva.

Potere, violenza e linguaggio sono i determinanti dell’abuso (domestico  e non) dunque le nozioni da ridefinire attraverso la capacità di annullare il quinto angolo. Quel quinto angolo che -come nel romanzo omonimo di Izrail Metter- la protagonista, imprigionata in una stanza quadrangolare, è obbligata fino alla morte a cercare.

In quest’epoca di confusione senza condono, di incertezze globali, di “indefinibilità” dei generi, di malessere sociale divenuto emergenza, di donne quasi sempre vittime e di uomini non necessariamente carnefici, occorre soffocare la fascinazione della violenza attraverso una cultura “dialogante”, in famiglia, nelle scuole, nelle nostre università, nelle associazioni, in parrocchia, in strada, nelle istituzioni, abbandonando la (comoda) zavorra del senso di inutilità e fidando ognuno nella propria capacità del fare e nella taumaturgia del dire perché, “nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza”……

Che deflagri, alla fine, per mano dell’improbabile soldato americano della Cortellesi, la pasticceria del pretendente già mostro alla luce del domani, ed insieme ad essa l’ennesima condanna di una donna che avrà, lei, ancora un domani.

Katia Mammola (Socia AMUSE) – novembre 2023

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